Invito alla lettura di Nirmalya Kumar e Jan-Benedict E.M Steenkamp, Private Label Strategy: How to Meet the Store Brand Challenge, Harvard Business Review Press, 2007. Nonostante la diffusione dei marchi privati, il libro di Kumar e Steenkamp è fra i non molti dedicati interamente all’argomento. Focalizzato sui private label della GDO, il libro risulta interessante anche per chi si occupa di marchi privati nel settore B2B.
***
Private label, marchi privati… gli autori preferiscono definirli retailer brand o store brand, per sottolineare che i marchi del distributore sono brand a tutti gli effetti, portatori di valori funzionali, emozionali, sociali ed economici, al pari dei marchi originali.
I retailer quando hanno iniziato a proporre prodotti a marchio del distributore?
La nascita dei retailer brand affonda risale agli anni Settanta del Novecento, quando le catene della GDO, espandendosi a livello nazionale e internazionale, iniziano in alcuni casi a superare dimensionalmente i produttori/brand, a comunicare in modo diretto con i consumatori e ad aumentare il potere negoziale nei confronti dei produttori/brand.
Non un solo marchio, ma un portafoglio multibrand
Kumar e Steenkamp sottolineano che Tipicamente il retailer non detiene un solo marchio del distributore, ma un portafoglio di store brand, che possono essere:
- Sotto-marchi dell’insegna, che riportano anche il nome dell’insegna
- Marchi a sé stanti, che non riportano il nome dell’insegna
- Co-brand con un produttore specializzato, che riportano sia il nome del marchio originale sia quello dell’insegna.
Gli store brand possono essere suddivisi in tre tipi principali:
- Generico. Si tratta di prodotti caratterizzati dal più basso prezzo possibile, pensati per persone che devono risparmiare o che scelgono di risparmiare in categorie percepite come commodity
- Copycat. Si tratta di prodotti che, anche nel packaging, imitano l’originale, differenziandosene per il prezzo più basso. I prodotti copycat sfruttano le attività di ricerca e sviluppo e di marketing del produttore/brand. La loro introduzione non rappresenta un grande rischio per il retailer, dato che sono copie di prodotti di successo. I prodotti copycat sono pensati per persone che devono o desiderano risparmiare, accontentandosi di una qualità similare all’originale
- Premium. Per sviluppare prodotti a marchio del distributore di tipo premium, i retailer devono fare un lavoro analogo a quello dei produttori detentori di brand originali: analizzare il mercato, svolgere attività di ricerca e sviluppo (anche in collaborazione con la futura azienda produttrice), ideare un prodotto dalle caratteristiche funzionali e dal packaging distintivi, sforzarsi di arricchire lo store brand/il prodotto anche con valori emozionali e sociali, assumere un maggiore rischio legato all’introduzione del prodotto.
I tre tipi di marchi del distributore si possono infine articolare in tre segmenti, in base ai seguenti criteri:
- Prezzo. Prodotti di tipo generico competono spesso con prodotti analoghi dei discounter, mentre prodotti copycat e premium tendono a competere a diverso livello con i prodotti a marchio originale. Gli autori sottolineano che, se in una determinata categoria il retailer ha più store brand segmentati per prezzo, i prodotti a marchio del distributore vanno collocati a scaffale vicino ai concorrenti a marchio originale, non vicini fra loro per non cannibalizzare le vendite e per non riflettere su prodotti premium la minore qualità percepita dei prodotti generici/copycat
- Categoria. Affiancando a uno o due marchi originali il retailer brand, l’insegna suscita nelle persone la sensazione di maggiore scelta. La strategia del retailer è sostituire progressivamente i brand più deboli con prodotti del distributore
- Benefit. I migliori prodotti premium sono sviluppati dall’insegna intorno a esigenze specifiche di segmenti di clientela (per esempio prodotti biologici, prodotti “senza”, prodotti locali, prodotti etnici, ecc.).
Il fattore prezzo
Sulla base degli studi citati nel libro, Kumar e Steenkamp affermano che, a parità di qualità percepita, le persone sono ancora disposte a pagare di più (negli USA intorno al 40% in più) per acquistare prodotti a marchio originale, soprattutto in considerazione dei valori emozionali e sociali che in particolare giovani, coppie e persone a basso reddito sono propensi ad associare ai brand.
Per indurre le persone ad acquistare prodotti a marchio del distributore, il gap di prezzo fra essi e i corrispondenti originali deve essere percepito come superiore alla perdita dovuta al mancato acquisto del prodotto originale.
Le persone, osservano gli autori, tendono a essere più sensibili alla qualità percepita che al prezzo. Ecco perché il retailer dovrebbe puntare su prodotti premium, spostando la competizione (anche) su terreni diversi dal prezzo.
Come indurre i clienti a provare prodotti a marchio del distributore?
Fra le strategie più diffuse per convincere le persone a provare gli store brand vi sono:
- Applicare la formula “soddisfatti o rimborsati”, declinata anche nella variante che promette di sostituire il prodotto a marchio del distributore con quello a marchio originale in caso di insoddisfazione. Obiettivo è abbassare la percezione del rischio
- Ricevere valutazioni positive da parti terze indipendenti (per esempio associazioni di consumatori, enti di certificazione, ecc.)
- Mette in atto stimoli presso il punto vendita (per esempio packaging accattivante, posizione favorevole sullo scaffale, posizione sulla testata di gondola, ecc.)
- Impiegare la comunicazione per cercare di infondere nel retailer brand anche valori emozionali e sociali.
Perché i marchi del distributore possono essere vantaggiosi per il retailer?
Di norma, se un cliente apprezza uno store brand, ne può acquistare i prodotti solo presso i punti vendita dell’insegna. Fidelizzare gli acquirenti è un motivo primario per sviluppare marchi del distributore, anche in considerazione del fatto che, se il cliente apprezza un prodotto o un marchio, essi possono fare da traino per altri prodotti e brand del retailer.
Se un prodotto a marchio del distributore è competitivo, esso può mettere sotto pressione il brand originale in fase di negoziazione. Ma, puntualizzano gli autori, ciò vale solo se il prodotto dell’insegna non ha così tanto successo da rendere improbabile la crescita del prodotto a marchio originale verso segmenti di clientela ulteriori a quelli già fidelizzati e consolidati.
Quali fattori aumentano le chance di successo dei prodotti a marchio del distributore?
Possono avere successo prodotti copycat che, in una determinata categoria merceologica, concorrono con uno o due prodotti a marchio originale, posizionandosi come alternativa per i clienti che devono o desiderano risparmiare ottenendo in cambio una qualità similare.
Prodotti a marchio del distributore più rischiosi da introdurre, ma potenzialmente di successo, sono quelli sviluppati dall’insegna intorno a esigenze specifiche di segmenti di clientela non coperte dai brand, nonché quelli che reingegnerizzano la catena del valore e il prodotto per proporre “qualità elevata alla portata di tutti”.
I retailer possono fare a meno dei prodotti a marchio originale?
Kumar e Steenkamp insistono sul fatto che gli store brand sono complementari, non alternativi ai marchi originali, che devono sempre far parte dell’assortimento del retailer e che anche gli hard discounter stanno via via introducendo.
I prodotti dei brand:
- Attirano i clienti presso il punto vendita, soprattutto se apprezzati o innovativi
- Fungono da strumento di differenziazione fra i retailer. I produttori possono acconsentire a distribuirli anche attraverso gli hard discounter, perché essi rappresentano un canale distinto e tendono a non cannibalizzare le vendite presso i retailer tradizionali
- Danno al cliente la percezione di poter scegliere, cioè di non essere forzati dall’insegna ad acquistare gli store brand
- Sfatando un luogo comune, sono spesso profittevoli per il retailer. Non è infatti detto che il profitto derivante dai retailer brand sia sempre maggiore per l’insegna rispetto a quello generato dai prodotti a marchio originale. Tra i fattori che influenzano la redditività vi sono, per esempio, i contributi che i produttori riconoscono ai retailer (per esempio su costi di magazzino, trasporto, marketing, pubblicità, promozioni, sconti), il prezzo unitario normalmente più elevato dei prodotti dei brand, la rotazione più rapida (molto rilevante in considerazione della scarsità dello spazio a scaffale).
Per produttori che detengono marchi originali, ha senso produrre prodotti a marchio del distributore?
Secondo gli autori, fabbricare per uno o più retailer può essere una decisione a tempo determinato che il produttore prende per smaltire capacità produttive in eccesso, per esempio in vista di riorganizzazioni aziendali o della creazione di una spin-off dedicata alla sola produzione per gli store brand. In quest’ottica si tratta per il produttore di un guadagno in più nel breve periodo.
Fabbricare i retailer può essere un’opportunità per produttori che non sono leader di mercato e i cui prodotti rischiano di scomparire dagli scaffali, se l’insegna riduce i marchi originali a uno o due per categoria, a causa dell’introduzione di marchi propri.
Kumar e Steenkamp sottolineano che, fabbricando per uno o più retailer, alcuni produttori mirano ad acquisire più controllo su una determinata categoria merceologica, a rafforzare la relazione con l’insegna e/o a ricevere informazioni utili a sviluppare una conoscenza più approfondita di esigenze e desiderata dei consumatori. Negli studi citati dagli autori non vi sono invece evidenze della possibilità che, agendo anche da fabbricante, il produttore possa sperare di ricevere un trattamento di favore da parte del retailer, anzi: facendo leva sul doppio ruolo di fabbricante/brand, l’insegna potrebbe addirittura riuscire a forzare il produttore ad arricchire anche i prodotti a marchio del distributore del portato delle sue attività di ricerca e sviluppo, a evidente detrimento dei prodotti a marchio originale.
La sfida della partnership win-win fra produttore e retailer
Non produrre per il retailer, ma cercare di stabilire una collaborazione proficua per ambe le parti è un obiettivo sfidante per i produttori.
Kumar e Steenkamp suggeriscono in particolare due strategie:
- Ridurre insieme all’insegna i costi complessivi della distribuzione, mettendo a punto un portafoglio di prodotti a marchio originale rispondente alle strategie del retailer
- Sviluppare assieme all’insegna prodotti ad hoc disponibili in esclusiva e per un periodo limitato di tempo.
Come mantenere attrattivi brand e prodotti a marchio originale
Per sostenere l’attrattività dei brand, gli autori suggeriscono ai produttori di:
- Razionalizzare categorie, prodotti e brand in modo da concentrarsi su quelli in cui la concorrenza con gli store brand è meno pressante, poiché l’innovazione conta di più ed è più difficile da copiare (per esempio cura della persona, beauty, salute; non il comparto alimentare)
- Produrre non solo innovazione “incrementale”, ma anche e soprattutto “radicale”, sviluppando prodotti appetibili per i consumatori, che i retailer (ancora) non hanno in assortimento e per cui non esistono serie storiche su cui basare negoziazioni al ribasso
- Innovare il modello di business, per esempio mediante lo sviluppo di prodotti di sistema atti a fidelizzare il cliente (Gillette, Nespresso), attraverso l’allestimento di punti vendita del brand che puntano sul valore esperienziale e che fungono da driver per l’acquisto dei prodotti a marchio originale anche presso il retailer (Starbucks) o con azioni marketing non convenzionali atte a creare una community intorno al prodotto (Red Bull)
- Aumentare il valore percepito, emozionale e sociale, con attività di comunicazione diretta al consumatore, non con attività di promozione mediate dal retailer
- Mantenere adeguato il price gap fra prodotto a marchio originale e store brand distinguendosi per un mix di qualità funzionale e valori immateriali.